TAVOLA ROTONDA con Pierangelo Barone, Simona Bonilauri, Monica Negretti e Marco Orsi

EDUCARE NELLA COMPLESSITÀ VERSO UNA PEDAGOGIA DELLA PRESENZA
Questa tavola rotonda nasce da un desiderio di confronto e di crescita. Rappresenta un occasione per potersi pronunciare su ciò che viviamo ogni giorno come psicologi, formatori, dirigenti, pedagogisti, insegnanti, su come incontriamo ogni giorno bambini, genitori e colleghi, su che cosa pensiamo significhi educare oggi: si tratta di una tavola rotonda che vuole mettere al centro della riflessione un idea di qualità della relazione educativa, a partire da un tentativo di cogliere chi è un bambino, ma anche di chi è un insegnante. Abbiamo chiesto di essere nostro ospite a Marco Orsi fondatore della rete scuole Senza Zaino e a Simona Bonilauri pedagogista delle Istituzioni per l’infanzia del Comune di Reggio Emilia: abbiamo quindi la rappresentanza di due importanti approcci educativi presenti in Italia. Ho incontrato molte volte i bambini e le insegnanti e i pedagogisti del Reggio Children Approach, diverse volte anche dirigenti e insegnanti del progetto Senza Zaino: quello che sempre mi ha colpita è stata la sensazione di ‘autentica accoglienza’, la reale disponibilità all’incontro e il loro sguardo curioso, attento e rispettoso. Sono sempre uscita da questi incontri con molto entusiasmo e con la certezza di aver fatto un’ esperienza di ‘ possibilità’. Certo, quello che colpisce andando a Reggio o in una Scuola Zaino, sono gli spazi, i materiali, l’operosità serena di bambini e insegnanti con la conseguente ricchezza di spunti che ne emerge. Ma, nel tempo, mi sono accorta che la vera preziosità dell’incontro con queste realtà è nella qualità della relazione tra adulti e bambini che propongono. Quello che si ‘vede fuori’ è espressione di una qualità continuamente ricercata dalle persone stesse: è come se le scuole reggiane o senza zaino siano espressione della qualità delle persone che le abitano. In una logica di interazione reciproca, spazi , materiali e tempi sostengono e favoriscono una certa idea di relazione. La scuola diventa macro espressione concreta e tangibile della qualità raggiunta dalle persone nel loro essere ‘Io-Soggetti’ consistenti (come li definirebbe Michel Minolli, uno dei padri fondatori della SIPRe) . Una scuola quindi espressione del processo qualitativo dei soggetti nel loro divenire. Bambini, insegnanti, genitori, dirigenti divengono, insieme.
Di che qualità relazionale stiamo parlando? Caratterizzata da cosa? Che idea soggetto ( insegnante, bambino, genitore) e del suo sviluppo è sottesa a queste azioni quotidiane?
È nostro ospite anche Pierangelo Barone a rappresentanza dell’Università Bicocca di Milano, dipartimento di Scienze Umane della Formazione, quindi di un istituzione che si occupa di formare futuri formatori. Anche a lui rivolgo gli stessi interrogativi.

Questa mattina vorrei che diventasse l’occasione per confrontaci, esplicitandole, sulle teorie, sulle epistemologie, ancora di più sulle diverse ‘visioni del mondo’ con cui ogni giorno entriamo a scuola: perchè è proprio a partire dall’essere ciò che siamo e pensiamo, che ognuno di noi vive e si muove nell’incontro con l’altro. Do per scontato che a scuola si impari a leggere, a scrivere o a sapere di geografia, tutto questo è utile ai bambini per partecipare alla nostra cultura.. e mi chiedo però: l’educazione ad una cultura è sufficiente? C’è ‘molto altro e molto di più’ che avviene a scuola ogni giorno.
EDUCARE NELLA COMPLESSITÀ: verso una pedagogia della Presenza è la cornice che vi propongo e dentro la quale si articoleranno le nostre riflessioni. Quindi per iniziare il nostro confronto vorrei condividere alcune riflessioni su come l’epistemologia della complessità ha cambiato l’idea di scienza e di conoscenza e di come questo abbia interrogato sul senso dell’educare. Vi parlerò anche della conoscenza come Presenza a se stessi quale strumento della relazione educativa stessa.
LA COMPLESSITÀ
L’epistemologia della complessità si pone come prospettiva in alternativa alla ‘linearità’ del pensiero positivista: non esiste la conoscenza assoluta, non esistono leggi universali che possano spiegare il mondo seguendo solo una logica di causa-effetto, ma nella realtà si coglie la diversità, la pluralità, la „confusione‟ che apre lo spazio alla dimensione soggettiva della costruzione di significati e dell‟operare scelte, assumendo consapevolmente la responsabilità e l‟incertezza che tale dimensione porta con se. La conoscenza diventa allora processo complesso ed emerge l’esigenza di andare verso una riflessione sulle modalità in cui rendere possibile un confronto, un‟interazione tra la pluralità delle prospettive, uno spazio possibile di „dialogo‟ che non determini la riduzione della realtà ad una totale dipendenza dalla variabile dell‟osservatore o ad un generalistico relativismo. Fare della complessità una scelta epistemica significa considerare la conoscenza come un progetto aperto, Scrive Morin (1996): „ Bisogna pensare in stato di incertezza visto che nessuno può prevedere di che cosa è fatto il domani o il dopodomani. Tanto più che abbiamo vissuto il fallimento del progresso infallibile previsto dalle leggi della storia o dallo sviluppo logico della scienza e della ragione. Siamo ora nella situazione di dover prendere tragicamente coscienza (…) della necessità di lavorare nell’incertezza.’ Il reale si trasforma, è necessario concepire la conoscenza come un lento e faticoso percorso di ricerca e apprendimento insieme, caratterizzato da intraprendenza e curiosità: scrive Minolli,(2014 inedito) ‘ la realtà esiste e l’essere umano la può conoscere assumendosi la responsabilità di aver cura che ciò che fa sia rispettoso e attento a ciò con cui ha a che fare (…) e il metodo diventa relativo allo stare attenti che ‘non si faccia tacere per sempre l’oggetto stesso che interroghiamo’. Nessuno ha la verità assoluta, ognuno ha un punto di vista, ma il proprio punto di vista non è uno dei tanti a causa dell’osservatore, ma a causa della limitatezza della conoscenza umana che non arriva a cogliere tutte le variabili in gioco. Scrive ancora Minolli: (possiamo) ‘pensare ad un essere umano che sia così sicuro nella sua insicurezza da poggiarsi solo sulla sicurezza che il suo punto di vista è solo uno fra i tanti che sono presenti e che verranno’. Quindi: “Immettere la conoscenza in un percorso aperto e continuo, il cui filo conduttore è nel processo, nel divenire, nella qualità del sapere e non nei traguardi possibili” . (Minolli, 2009, p.26) Ecco il cambio di mentalità: ‘ Non accontentarsi dell’affermazione universale e applicarla al singolo evento, ma il contrario poter dare tutto il suo peso al singolo evento (..) nella logica del mantenere e continuare a camminare’, che significa pensare di fare scienza partendo dal particolare. Una scienza che metta al centro le ‘domande’ per cui sono sempre possibili più risposte, un fare scienza rimanendo in contatto con le domande e con ciò che esse veicolano rispetto proprio alla ‘visione del mondo’. (Minolli 2014)
Incertezza, apertura, ricerca, particolarità, unicità..Se questo è l’orizzonte in cui l’essere umano si muove, a cosa educare allora? Che obiettivi mi pongo?
LA PRESENZA A SE STESSI
Se la conoscenza dipende dall’osservatore, quell’osservatore, allora il soggetto conoscente deve poter immettere nell’atto del conoscere anche la Presenza al proprio funzionamento ( al proprio punto di vista che è il suo). Michele Minolli chiama Presenza a se stesso del sistema conoscente, proprio il prender atto del proprio stato: nel relazionarsi al mondo, l’Io-Soggetto utilizza le competenze cognitive legate al riconoscimento del dato „altro‟ (conoscenza informazionale) e le competenze meta-cognitive-specie-specifiche – di riflessione (la cosiddetta „conoscenza della conoscenza‟), ma non solo, l’essere umano può essere Presente a ciò che succede per come succede nel momento in cui succede. Mettere insieme diversi punti di vista, cogliere la processualità del cammino della conoscenza, si riferiscono ad una operazione successiva riflessiva potremmo dire, in cui il soggetto ha per oggetto la sua stessa conoscenza. La Presenza si riferisce invece come ad una conoscenza della conoscenza fine a se stessa, non ha obiettivi, nè scopi, è un cogliere, cogliersi: ‘ C’è nell’Io-Soggetto la capacità di essere Presente a se stesso, un capacità che, pur a seguito della riflessività, oltrepassa il pensiero e la parola, per concretizzarsi in un rapporto di accettazione e di riconoscimento del proprio stato e del proprio essere’. Il bambino, così come il genitore o l‟ insegnante ha la sua visione della realtà, il suo punto di vista, nessuno ha la verità assoluta; attraverso la Presenza possiamo essere in contatto con il fatto che quello che uno pensa, o crede essere la realtà è espressione di sè e quindi è soltanto un punto di vista su di essa. La Presenza si riferisce ad una qualità di conoscenza che permette di ascoltare diversi punti di vista, considerare diversità e uguaglianze, differenze e complementarietà, prendendo solo atto di come stanno le cose.
L’epistemologia della complessità e la conoscenza come Presenza ci invitano a prestare attenzione al processo, al divenire, ai punti di vista, alla responsabilità – come assunzione personale, come un riconoscersi- nel cammino scelto che è il nostro e che è espressione di noi. Un cammino che è continuo che è la vita. Le ricerche della psicologia dello sviluppo ( in particolare l’Infant Research) ci raccontano di un bambino ricco, competente a vivere, in interazione con l’adulto. È nella relazionalità che troviamo il motore primo del definirsi e dell‟essere del’Io–Soggetto: all‟occasione dell‟altro l‟Io-soggetto si esprime, è messo in moto, si definisce. La relazionalità è il motore della definizione dell’Io-Soggetto come qualsiasi processo di crescita e di adattamento alla vita. Bambino e insegnante condividono questa dimensione del cambiamento dentro le relazioni.
Allora, concretamente: non è più opportuno o necessario pensare all‟insegnante come colui che conosce la verità da trasmettere al bambino, né all‟apprendimento come una situazione di „separazione‟ in cui l’Altro è la domanda e noi siamo la soluzione. Sono, invece, la disponibilità e la capacità dell‟insegnante di ascoltare ciò che l‟altro sta portando e di prenderlo sul serio, così come di ascoltare se stesso ( essere Presente) all‟interno dell‟interazione e non „darsi per scontato‟, ad essere strettamente connesse ad una nuova idea della relazione d‟apprendimento. Tale prospettiva presuppone il riconoscimento, da parte dell‟insegnante, del suo essere totalmente parte del gioco e quindi di avere la necessità di attingere a se stesso per entrare nel mondo del bambino, di accorgersi e farsi carico delle modalità o delle difficoltà che porta, fuori da una logica protetta di ruolo e dalla rassicurazione delle teorie e delle „istruzioni per l‟uso‟, permettendo così al bambino, e a se stesso, di percorrere la sua strada e il suo processo „per come è‟, all‟interno della relazione ( Negretti, Petitti, Sasso 2013).
Questa qualità ho colto a Reggio o nelle scuole senza zaino? Ma..come renderla possibile? Qui si tratta di andare dentro al concetto di rispetto/incontro del bambino e dell’altro..
Apriamo qui il nostro confronto:
 Siamo in grado di pensare ad un approccio educativo che tenga conto della complessità e non si faccia prendere dal tentativo di ridurla?
 Pensando all’istituzione scolastica, come non sacrificare la complessità in ordine alla tradizione e alle aspettative di ruolo?
 Intendere la scienza come valorizzazione del dato particolare, la conoscenza come progetto aperto, mettere il soggetto dentro al processo di conoscenza che implicazioni ha in ambito educativo? Come cambia gli obiettivi educativi?
 Intendere la conoscenza anche come Presenza a se stessi che immagine di bambino e insegnante e del loro stare insieme a scuola, ci restituisce? E come ci interroga sulla qualità della formazione degli stessi formatori?
EDUCARE L’IO-SOGGETTO?
L’educare a cosa è rivolto allora? Ex-ducere deriva da tirare fuori/far emergere: ma cosa? e soprattutto noi possiamo ‘tirare fuori’ qualcosa da qualcun altro? Come se l’altro in fondo fosse passivo e inerme? La psicologia dello sviluppo, come spesso le teorie educative, hanno indicato nel tempo, dei contenuti ‘buoni – quelli appunto da tirar fuori- per lo sviluppo: l’intelligenza, la creatività, il superamento di fasi, l’apprendimento di contenuti sempre nuovi. Ma quando le relazioni sono basate sui contenuti, c’è davvero spazio perchè possa emergere l’unicità di ogni Io- Soggetto o alla fine viene dato un criterio concreto e definito di chi uno deve essere o tendere ad essere, per essere ‘giusto’ o per lo meno accettato e considerato?
Nell’orizzonte della complessità emerge l’esigenza per l’essere umano di saper stare dentro al cambiamento. Non però un cambiamento inteso come adattamento, ma più come una qualità che si esprime come atteggiamento dell’Io- soggetto verso la realtà. Minolli definisce ‘consistenza’ la ‘qualità che permette all’Io-Soggetto di prendersi sul serio per come è nell’affrontare il mondo nel quale è posto e fare di se stesso il punto di partenza della propria vita’. Se pensiamo al bambino come un Io-Soggetto, lo scenario che ci compare davanti è quello di una persona che diviene per tutta la sua vita, all‟interno di incontri con altro da sé, e che ogni cosa che accade è affermazione ed espressione di ciò che lui è, in quel momento della sua vita e contemporaneamente occasione per cogliersi e trasformarsi. Quindi, in fondo, quello che per tutta la vita l‟Io-soggetto fa, è conoscere, nel senso di diventare e scoprire se stesso nel proprio divenire in interazione col mondo. Allora bambino e insegnante, bambino e genitori possono essere uniti, complici, alleati e solidali in questo comune cammino fatto di costruzione e affermazione di sé, di possibilità di esserci, capaci di lottare e gioire insieme. Con l’attenzione e la cura, come sottolineava un’ insegnante: ‘ Che se adotto questa prospettiva diventa importante la dimensione della progettazione e del metodo… perchè i contenuti stessi non mettano a tacere il processo che invece penso sia importante sostenere e proporre ai bambini’.
A scuola allora è possibile pensare di vivere e proporre esperienze, non razionali o cognitive, ma esperienze trasformanti, che rendono possibile il cogliersi esistenti e unici (consistenti) per bambini, insegnanti e genitori. Anche se non si può educare/insegnare la consistenza, altrimenti ricadremmo nel ‘buon contenuto’ e nell’idea di determinare lo sviluppo dall’esterno come se il bambino/L’Altro in fondo fosse in fondo un piccolo robot: „Nessuno può consistere per un altro’ ( Minolli 2012), un genitore o un educatore non può dare la qualità del proprio esistere ad un bambino, ogni Io-Soggetto ha il proprio peculiare cammino nella consistenza. È possibile però pensare ad una relazione educativa che non poggia sui contenuti, ma sulla qualità dell‟esserci in quella relazione, un esserci che può dare spazio all‟esserci dell‟altro. Questa prospettiva non esclude che a scuola vi siano obiettivi legati a informazioni, conoscenze disciplinari utili… In fondo anche imparare la matematica è gestire un cambiamento per il bambino. Attraverso la prospettiva della Presenza è possibile però perseguire una qualità diversa nella relazione educativa, in cui tutti i punti di vista diventano importanti, perchè viene trasmesso di apertura verso la realtà esterna e propria. Ciò che il bambino può sperimentare è quindi uno spazio concreto e autentico di possibilità di esserci con il proprio unico specifico valore, al bambino è data la possibilità di sentire la propria consistenza, ossia il suo modo di essere e di vedere il mondo.
Quello che gli educatori dovrebbero darsi come obiettivo non è qualcosa di concreto come l’intelligenza o la creatività o l’attività o la conformità a un modello, ma solo e soltanto lo sviluppo dell’Io-soggetto’. Scrive Minolli: ‘Le teorie o metamodelli dell’età dello sviluppo o del cambiamento propongono una visione che non comprende l’Io-soggetto. E’ molto probabile che sia solo una questione di linguaggio, ma quello che si coglie nelle presentazioni delle varie teorie sull’educazione è che il soggetto sia solo una variabile data per scontata o inesistente.
Su questa provocazione di Minolli, ho colto la possibilità di uscire dalla trappola dei contenuti ( che comunque ha in se una logica di standardizzazione) perchè l’educare possa rivolgersi alla qualità del processo di sviluppo dell’Io-soggetto nel senso proprio di diventare Io-Soggetto. E Se soggetti non si nasce ma si diventa, possiamo provare allora a rivolgere il nostro sguardo al divenire qualitativo del soggetto nel tempo, di un bambino quindi che costruisce il proprio esistere per tutta la vita: Minolli distingue il momento iniziale del costituirsi dell’Io-soggetto e il suo divenire nel resto della vita; quando un bambino nasce, lo fa in uno specifico contesto, ed è su questo che fonda il suo movimento nella vita: l‟Io-soggetto si struttura sull‟altro (esterno- contesto-ambiente- genetica) e quindi „è l’altro’, non però in modo passivo, assorbente, modellato sull‟altro, ma attivamente, facendolo proprio, come a dire che dall‟incontro tra l‟Io-soggetto e l‟altro avviene una interazione circolare ricorsiva in cui entrambi i poli dell‟interazione divengono, trasformandosi. Quando Minolli sostiene che:‟ Io soggetto non si nasce ma si diventa’ (Minolli, 2012 p. 7), si riferisce a questo assumersi, da parte dell‟Io-soggetto, un ruolo attivo nel processo stesso del suo divenire. Questa qualità processuale riguarda anche insegnanti e genitori: è a questo livello che pongo l’autentica co-costruzione dell’apprendimento tra adulti e bambini. Quindi le relazioni, anche educative, segnate qualitativamente dalla Presenza, rendono possibili situazioni di ‘creatività’ ed è nella creatività che si apre uno spazio formativo, quello del divenire un Io-Soggetto. Scrive Minolli:
‘Il modo, l’unico modo, che ha a disposizione l’altro, chiunque esso sia o genitore o educatore o partner o simile, per aiutare l’Io-soggetto a sviluppare la propria possibilità di accettarsi attivamente per quello che è e a mettersi in moto per trovare dentro di sé una qualità diversa di essere ossia per diventare creativo, è quella di trasmettere una visione aperta dello spazio esistenziale. Trasmettere una visione “aperta” vuol dire prima di tutto, visto che la trasmissione poi avviene automaticamente, avere una visione possibilistica del proprio essere, del proprio agire e quindi del proprio rapporto con l’altro. Una visione possibilistica esula da giusto o sbagliato, da bene o male, da assoluto o relativo, implica solo un atteggiamento di apertura’. Ammettere che il proprio punto di vista può essere relativizzato, ha un incidenza sullo spazio di creatività dell’Io-Soggetto. La creatività sta nella possibilità che l’Io-Soggetto si da di slegarsi dall’essere solo in un modo senza altri orizzonti: ‘ In fondo la sofferenza, (anche nelle Istituzioni) è sentirsi condannati senza sapere perchè’. ( Minolli, 2014)
Quindi mi interrogo sul valore della documentazione pedagogica del Reggio Children Approach, il lavoro continuo con e dentro spazi e materiali delle scuole senza zaino, il valore sta nella dimensione di continua apertura a cui invitano e da cui sono generati in un circolo virtuoso: un apertura in cui può emergere la creatività. Se ripeso al cammino di diverse scuole qui presenti, lo vedo snodarsi dapprima dentro la riflessività ( quali pratiche educative, quali relazioni, poi i perchè) che ha portato alla consapevolezza. Ma non è stato sufficiente: potevamo avere coscienza della nostra storia e singolarità, è stato però attraverso la Presenza che si è potuto accedere ad un procederein ordine alla creatività. La consapevolezza è stato il punto di partenza e non di arrivo: il pensiero, la parola che spiega, tende all’assolutizzazione, la Presenza relativizza, riportando ciò che colgo all’essere mia espressione, cio che provo ora, ciò che ho fatto, sono io. è Questa relativizzazione che apre lo spazio ad un procedere in ordine alla creatività: in una serata con Daniela Pampaloni, un genitore presente chiese che lavoro veniva proposto alle insegnanti per permettere loro di riconoscersi dentro ad una classe senza cattedra, potremmo dire ora che ‘la formazione dell’insegnante, comincia invece proprio da quando la cattedra è stata spostata.

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